UZBEKISTAN: Un Viaggio tra Mercati, Relitti e Città Blu
Me l’hai sussurrato all’orecchio… Dì la verità, Isla.
Durante la pausa caffè a lavoro, mentre parlavo di viaggi e di Paesi ancora da scoprire, hai insinuato un desiderio nella mia mente. Mi hai sussurrato di rubare l’idea di visitare la maestosa Samarcanda.
Era una meta che avevo sempre sognato, eppure, chissà perché, l’avevo lasciata scivolare via dalla memoria. Ma in un istante, con quella conversazione, hai fatto di me una ladra di viaggi. Nel giro di una settimana avevo già pianificato tutto: sarebbe stato il mio regalo di compleanno, un rito che rispetto ogni anno. E dopo tanto tempo, tornavo a viaggiare da sola perché troppo a lungo non mi ero ascoltata, lasciandomi in sospeso… e avevo il forte desiderio di stare con me stessa.
Ero emozionata. Trepidante. Viva.
Il Caos e i Colori di Tashkent
E così, un mese dopo atterro a Taskent, la capitale dell’Uzbekistan, in una piovosa mattina di maggio. La prima tappa segnata su Google Maps mi porta nel cuore pulsante della città vecchia eski shahar: il Chorsu Bozori, il mercato coperto dai tetti azzurri, dove il profumo del pane cotto nei forni si mescola con i colori accesi dei tessuti Ikat e i sorrisi dorati delle donne in abiti tradizionali mi trasmettono un qualcosa di misticamente gitano.
Mentre esploro la città, il contrasto tra l’antica Tashkent e i suoi grattacieli moderni diventa evidente. È impossibile non notare la particolarità delle auto: tutte bianche, per contrastare il caldo estivo. Tra le strade, bambini giocano a calcio con una spensieratezza che ricorda un passato italiano ormai sfumato, mentre i giovani si mettono in posa per selfie senza sosta. L’Uzbekistan si rivela fin da subito una terra di dualismi affascinanti.
Verso il Deserto di Aral
Dopo una giornata intensa a Taskent, volo a Nukus, nel nord-est del paese. Qui mi attende il mio driver, Salavat (se non ricordo male si scrive così), con il quale trascorro due giorni in un silenzio quasi surreale: la barriera linguistica (parla solo uzbeko e russo) e l’assenza di rete nel remoto Karakalpakstan rendono ogni scambio un misterioso enigma. Poco male, perché troviamo una lingua universale nei brani di Totò Cutugno e Albano, incredibilmente amati in questa parte di mondo.
Le otto ore di viaggio su strade dissestate mettono a dura prova la mia schiena, ma il paesaggio del deserto fangoso di Aral e la storia che lo avvolge rendono ogni scossone un tassello di un’avventura più grande. Sembra di viaggiare verso il nulla laddove proprio negli anni del regime sovietico, un’intensa politica di coltivazione del cotone, ha portato al prosciugamento del 90% del lago D’Aral, un tempo orgoglio della pesca dei suoi abitanti in un Paese senza mare. Arriviamo a Moynaq, un tempo porto fiorente sulle rive del Lago d’Aral, oggi un cimitero di relitti arrugginiti posati sul suo antico fondale come a voler marcare quel territorio che sempre sarà casa loro. Il silenzio è assordante, rotto solo da bambini che mi rincorrono chiedendo qualche moneta: un triste riflesso della povertà che questa regione si porta addosso. Qui, dove l’acqua si è ritirata per sempre, resto a contemplare i resti di un passato che non tornerà.
La sera, il freddo è pungente e il cielo si accende di stelle. Non c’è illuminazione, solo il vuoto che si fa compagno di viaggio. Ma poi arriva l’alba, quell’alba… un’esplosione di rosso che scalda anche l’aria più gelida: pura espressione della bellezza dell’Universo.
Tra Fortezze Millenarie e la Magia di Khiva
Lascio il Karakalpakstan con il cuore appesantito dalla storia che ho vissuto e mi dirigo verso le fortezze di Elliq-Qala, testimoni di un passato glorioso che oggi rischia di sgretolarsi sotto il peso del tempo. Ne visito solo tre, ma bastano per lasciarmi incantata. Cammino nella sabbia, l’orizzonte infinito mi spinge a svuotare lo zaino dai pensieri e a respirare la libertà della lentezza. Il paesaggio è arido e l’aria torrida. Tutto si ferma su queste fortezze: anche la presenza di altri turisti rientra nell’assoluto silenzio devoto.
Poi arriva Khiva. Piccola, perfetta, una bomboniera nel cuore del deserto. Ultima oasi sicura per le carovane dirette in Persia, oggi accoglie i viaggiatori con la stessa grazia di un tempo. L’oste della mia guesthouse corre a comprarmi birra ghiacciata e patatine quando scopre che ne ho voglia: un gesto di gentilezza che mi conquista all’istante. La sera, fumando il narghilè sotto le mura in sua compagnia, mi sento avvolta da un’atmosfera familiare. La città, racchiusa in un rettangolo protetto da mura imponenti, regala scorci di bellezza architettonica, come il Kalta-Minar, un minareto dal turchese brillante (anche se incompleto), e mercatini traboccanti di ceramiche fatte a mano, tappeti e stoffe pregiate. Anche se il contrattare sembra un’arte, l’esperienza rimane indimenticabile per la sua autenticità.
Bukhara, la Città Perfetta (Forse Troppo)
Khiva a malincuore in compagnia di un autista buffo ma molto gentile e premuroso e mi chiama Madam; mangia tanti semi di girasole alla guida e mi chiedo come faccia a saziarsi. Non posso fare a meno di fermarmi a Bukhara, la città monumentale. Il Registan, con il suo maestoso minareto di Bako, conserva la grandiosità che persino Gengis Khan decise di risparmiare dalla distruzione. Tuttavia, c’è qualcosa che non mi torna: qui, la bellezza sembra aver sacrificato l’anima sull’altare del turismo di lusso. è impeccabile, ma proprio questa perfezione mi lascia un senso di vuoto. Un solo pernottamento mi basta.
Samarcanda: Un Sogno Blu
Alle 15:00 del giorno seguente, salgo sul Tav Afrosiyob, il treno ad alta velocità che mi conduce verso la leggendaria Samarcanda. All’inizio la città mi disorienta, il contrasto tra la mia guesthouse in un quartiere povero e l’imponente Registan è spiazzante. Ma basta una cena con vista su una cupola turchese per farmi innamorare.
La mattina seguente, il Registan mi accoglie in tutta la sua maestosità. Le tre madrase mi lasciano senza fiato, con le loro maioliche lucide e le geometrie perfette. Offrono un panorama visivo senza eguali, nonostante un palco improvvisamente posto al centro che in qualche modo distrae dall’armonia del luogo. Tra un gruppo di ballerini che esegue una coreografia di danza popolare e chioschi colorati, il Registan diventa una sinfonia di storia, cultura e vita.
Nella moschea Bibi-Khanym (dedicata alla moglie più famosa di Tamerlano), mi copro il capo con una pashmina per rispetto nonostante alle donne non credenti sia concesso di entrare senza coprirsi. Accanto, il mercato brulica di vita e rumore nel quale è facilissimo smarrirsi.
E alla fine mi perdo davvero ma tra i mausolei della necropoli Shah-i Zinda (“Re vivente”), uno dei luoghi più affascinanti che abbia mai visto.
Qui, tra le sue venti tombe dai colori cobalto e turchese, provo un senso di pace indescrivibile. Non so quante ore vi sono rimasta in profonda ammirazione.
Mi concedo una pausa a Meros, una piccola fabbrica a Koni Ghil di Zariv Mukhtorov grazie al quale l’antichissima tradizione della carta di seta di Samarcanda, prodotta dalla corteccia di gelso, è tornata a splendere. Un’arte raffinata e preziosa, un pezzo di storia che sopravvive nel tempo, custodito tra le mani esperte di chi continua a tramandarla.
gli insetti non riescono a mangiare la carta fatta in questo modo. Così si conserva per un periodo dieci volte superiore rispetto a quella prodotta industrialmente”
Approfitto dello scenario rilassante per riordinare pensieri e parole…
Con Yandex, il loro Uber, giungo infine al Gur-e Amir, (“Tomba del Re”) il mausoleo di Tamerlano, con la sua cupola dorata che ha ispirato il Taj Mahal.
L’architettura sacra, i minareti decorati e il silenzio carico di mistero narrano storie millenarie, ricordandomi che ogni viaggio è un’opportunità per perdersi – per ritrovarsi in un caleidoscopio di colori, suoni e sensazioni.
Ultima tappa smarcata! Adesso so che questo viaggio sta per finire.
Il ritorno lento verso la guesthouse mi accompagna attraverso ogni istante vissuto in questa esperienza. La stanchezza inizia a farsi sentire, ma ogni passo, seppur affaticato, svela un turbine di emozioni difficili da raccontare. So soltanto che, in qualche modo, sono rinata. Ora sento che questo viaggio sta per concludersi.
Sai, Isla, ho imparato che il silenzio racconta più di mille parole, che la bellezza può sopravvivere anche tra le crepe della storia, e che a volte basta un sorriso, anche d’oro, o una tazza di tè fumante per sentirsi a casa in un luogo lontano. Forse è proprio questo il senso del viaggio: perdersi per ritrovarsi, lasciare andare per alleggerire il passo. Isla, un giorno magari ci verrai anche tu. E capirai.
